Negli occhi di Abbiati è rimasto oltre che il luccichio della curva rossonera, il salto sulle spalle di Massimo Ambrosini, capitano del nuovo corso milanista, a testimonianza che il suo ritorno, da titolare, è stato apprezzato anche dalla squadra che non può fare una questione di anagrafe e neanche di simpatia, ma solo e soltanto di fiducia. Fiducia nell’Abbiati ritrovato piuttosto che nel Dida degli ultimi tempi, diciamo dal derby (gol di Pandev su punizione nel finale) in avanti sotto accusa per qualsiasi intervento, importante e no. «Abbiamo temuto che i suoi nervi cedessero» la confessione degli amici di Christian che hanno seguito la sua lenta guarigione dopo l’intervento chirurgico al ginocchio e il «dentro e fuori» tra Udinese e Bari.
E invece no. Abbiati si è fatto trovare pronto, come è già successo in coppa Italia, al contrario di quanto accadde ai tempi del Dida imbattibile. Allora Abbiati fu un disastro: e venne stroncato da tutti, preparatore del portiere (Vecchi) e compagni di squadra compresi. Lezione capita, verrebbe da chiosare. Se non si scoprisse che nella sua carriera, parare i rigori, è quasi una vocazione. Basta dare un’occhiata ai numeri: 15 in tutto, di cui 11 in partite ufficiali, un bel gruzzoletto. Che deve far pensare al primo Abbiati apparso sulla scena di Milanello: l’Abbiati «paratutto» delle sette partite finali, torneo ’98-’99, con Zac allenatore, concluso dalla cavalcata verso lo scudetto con rimonta sulla Lazio avanti di 8 punti. Anche allora arrivò in squadra per un cambio casuale, Rossi squalificato, fuori causa Lehmann. E poi le chiamano coincidenze.
Franco Ordine - Il giornale